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La ricerca storica in campo artistico e l’Origine du Monde di Courbet

ARTICOLI D’ANTIQUARIATO

Non vi è pertugio nella vita e nell’opera di un artista che critici e storici dell’arte non pretendano di sondare e di svelare. Loro compito è, infatti, quello di verificare, analizzare e spiegare la narrazione artistica di un’epoca attraverso lo studio dei protagonisti e delle loro creazioni e quindi di qualsiasi elemento utile all’indagine che stanno compiendo.

Svelare l’identità narrativa di un’opera d’arte o di un movimento artistico è compito lungo e complesso in quanto presuppone la capacità di lettura sia delle opere sia del contesto cronologico in cui si collocano. Ciò fa sì che lo storico dell’arte si spinga alla ricerca di qualsiasi testimonianza possa convalidare le sue tesi e gli consenta il raggiungimento dei suoi obiettivi, a volte con risultati discutibili. È significativo il caso del ritrovamento delle sculture falsamente attribuite ad Amedeo Modigliani nel greto del Fosso Reale a Livorno, nel 1984, che portò alcuni critici, entusiasti della scoperta, a compiere una madornale gaffe di fronte al mondo intero.

Certo, L’Origine du monde, dipinto da Gustave Courbet (Ornans, 1819 – La Tour-de-Peilz, 1877) nel 1866 non è un quadro come tutti gli altri. Si può dire che il tema della nudità femminile sia nato con l’arte e risalga alla notte dei tempi, ma che non sia mai stato trattato in modo talmente realistico e ‘sfacciato’.

Origine du monde - Gustave Courbet

Gustave Courbet, L’Origine du monde

Esclusa l’ipotesi che quel particolare anatomico potesse essere frutto della creatività o di una combinazione di reminiscenze dell’artista, il quesito a chi appartenesse quella procace vulva esposta in primo piano in un dipinto di 46 x 55 cm ha assillato e tolto il sonno a tanti studiosi per oltre un secolo. Alcuni di loro in passato avevano espresso delle ipotesi e fatto il nome, tra le altre, di una cortigiana, Jeanne de Tourbey, e di Jo Hifferman, l’amante irlandese dell’artista statunitense James Whistler e, in un secondo tempo, dello stesso Courbet, che la dipinse come Jo, la belle irlandaise; ma i dubbi persistevano, soprattutto perché il colore scuro del vello pubico mal si addiceva alla capigliatura rossa di Jo Hiffernan.

Nel 2018, uno storico francese, dopo anni di studi, ha forse risolto definitivamente l’enigma dell’appartenenza de L’Origine du monde, uno dei massimi capolavori della storia dell’arte. Lo studioso è Claude Schopp, storico della letteratura e in particolare di Dumas, la cui ricerca documentaria suffraga l’identificazione della modella in Constance Queniaux, ballerina dell’Opéra di Parigi.

 Constance Queineaux

Constance Queineaux

Claude Schopp ha analizzato la corrispondenza tra Alexandre Dumas figlio e la scrittrice George Sand e, in particolare, una lettera che Dumas inviò a Sand nel giugno del 1871, in cui a proposito di Courbet scriveva: “on ne peint pas de son pinceau le plus délicat et le plus sonore l’interview de M.lle Queniault de l’Opéra” ossia: “uno non dipinge col suo pennello la più delicata e sonora intervista della signorina Quéniaux dell’Opéra” (Queniault sta per Quéniaux).

Lo storico, resosi conto che nella trascrizione del manoscritto conservato nella Bibliothèque Nationale de France la parola “interview” non si accordava con il contesto, ha pensato bene di andare alla ricerca dell’originale scoprendo che Dumas non aveva scritto “interview”, bensì “intérieur”, il che farebbe propendere la rilettura del testo come una chiara allusione ai genitali della ballerina dell’Opéra. L’ipotesi è sostenuta anche dal fatto che il committente e primo proprietario del quadro fu il diplomatico turco Khalil Bey di cui Constance Quéniaux, che allora aveva trentaquattro anni e non danzava più, era divenuta amante.

Alfredo Spanò
Ufficio stampa Associazione Culturale Pennabilli Antiquariato 

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La difesa delle ricchezze artistiche nazionali

ARTICOLI D’ANTIQUARIATO

IL COMANDO PER LA TUTELA DEL PATRIMONIO CULTURALE DEI CARABINIERI A DIFESA DELLE RICCHEZZE ARTISTICHE NAZIONALI

Il Nucleo Tutela del Patrimonio Artistico dei Carabinieri è stato istituito presso il Ministero della Pubblica Istruzione il 3 maggio 1969 dall’allora Capo di Stato Maggiore, Generale Arnaldo Ferrara, allo scopo di contrastare il saccheggio del patrimonio storico, artistico e culturale d’Italia.

Il nostro Paese è stato il primo al mondo a dotarsi di un organismo specialistico, anticipando la raccomandazione dell’UNESCO che esortava ad adottare misure volte a impedire l’esportazione illecita di beni culturali e a favorire il recupero di quelli trafugati.

A seguito dei rilevanti risultati conseguiti, il 20 settembre 1971 il Comando Generale dell’Arma ha elevato il reparto al rango di Comando di Corpo e negli anni successivi, allo scopo di adeguare il modello organizzativo alle esigenze di contrasto della criminalità specializzata, ha creato le Sezioni Archeologia, Antiquariato, Falsificazione e Arte Contemporanea collocandolo nell’ambito del Ministero per i Beni Culturali e Ambientali con la denominazione di Comando Carabinieri per la Tutela del Patrimonio Artistico.

Oggi, il Comando Carabinieri per la Tutela del Patrimonio Culturale, alle dipendenze funzionali del Ministro della Cultura, comprende un Reparto Operativo, ubicato a Roma, a cui sono attribuiti compiti di coordinamento investigativo in ambito nazionale e internazionale, sedici Nuclei, ciascuno con competenza su una o due regioni, e una Sezione per la Sicilia orientale.

Uno strumento fondamentale per l’attività del Comando è la “Banca dati dei beni culturali illecitamente sottratti”, la più grande a livello mondiale, che contiene informazioni su beni trafugati e persi di provenienza italiana ed estera. Il Comando opera sul territorio nazionale in collaborazione con tutte le componenti dell’Arma dei Carabinieri e per le indagini finalizzate al recupero di beni culturali esportati illegalmente si avvale dell’Interpol.

Per i meriti acquisiti dal Comando nel campo dei Beni Culturali sono state conferite alla Bandiera dell’Arma sette medaglie d’oro.

 

Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale

Una delle più recenti e significative operazioni di recupero da parte dei Carabinieri del Comando per la Tutela del Patrimonio Culturale ha riguardato una statua romana in marmo raffigurante un “Togatus”, opera del I secolo a.C., già collocata nel parco di Villa Marini Dettina in Roma, dal quale era stata trafugata circa dieci anni fa.

L’indagine è stata coordinata dalla Procura di Roma e condotta dalla Sezione Archeologia del Reparto Operativo del Comando Carabinieri per la Tutela del Patrimonio Culturale.

La statua, asportata da ignoti nel novembre 2011, è stata individuata da due militari della Sezione Archeologia che si trovavano a Bruxelles in occasione di indagini internazionali. Al termine delle attività giornaliere, liberi dal servizio, curiosando per le vie del quartiere Sablon, ricco di antiquari, i due carabinieri hanno notato in una galleria una statua in marmo presumibilmente di provenienza italiana. Al rientro in patria, in collaborazione con la Sezione Elaborazione Dati, alcune immagini fotografiche acquisite a Bruxelles sono state confrontate con i file della Banca Dati Leonardo dei beni culturali illecitamente sottratti che hanno consentito di identificare la statua come quella asportata da Villa Marini Dettina.

L’importante scultura è stata sottoposta a sequestro su disposizione della Procura della Repubblica di Roma a seguito di Ordine d’Indagine Europeo accolto dalle autorità belghe e rimpatriata nello scorso febbraio. La scultura romana, che raffigura un “Togatus”, altissima espressione storico artistica del patrimonio culturale nazionale, ha una stima puramente commerciale valutata in circa centomila euro.

Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale

Alfredo Spanò
Ufficio stampa Associazione Culturale Pennabilli Antiquariato 

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Il falso dell’arte, l’arte del falso

ARTICOLI D’ANTIQUARIATO

Per molto tempo l’iscrizione “PAICAP”, individuata in alcuni dipinti trecenteschi custoditi in importanti musei e gallerie, rimase incomprensibile, finché alcuni esperti non avanzarono dubbi sulla loro autenticità e scoprirono come ne fosse autore Icilio Federico Joni (1866 – 1946), un senese che imitava perfettamente la tecnica di Duccio di Boninsegna o di Simone Martini dipingendo su tavole che esponeva alle intemperie perché apparissero vecchie di secoli, e come quell’acronimo significasse “Per Andare In Culo Al Prossimo”. Ancora oggi, una delle sue opere è esposta al Metropolitan Museum di New York, solo da alcuni anni accompagnata da un’etichetta che cita il falsario senese.

Han van Meegeren (1889 – 1947) ebbe la sfrontatezza e il coraggio di raggirare Hermann Göring, luogotenente di Hitler, a cui cedette per una cifra enorme un falso Vermeer. Il pittore olandese si procurava vecchie tele di nessun valore, le ripuliva e dipingeva soggetti originali, poi le invecchiava col calore di un forno. Il crisma di autenticità lo ebbe da un esperto, Abraham Bredius, che ingannato dalla qualità dell’opera, autenticò una “Cena in Emmaus” attribuita a Johannes van der Meer, acquistata nel 1937 dalla Rembrandt Society per 520.000 fiorini (circa 4,5 milioni di euro di oggi) e donata al Museo Boijmans Van Beuningen di Rotterdam. Han van Meegeren fu arrestato nel 1945 quando le forze alleate trovarono il Vermeer in una miniera di sale che Göring usava come deposito. Le autorità ritennero il quadro autentico e risalirono a Han van Meegeren, che venne processato con l’accusa di collaborazionismo; per evitare la condanna confessò di essere un falsario dipingendo nell’aula del tribunale un “Gesù nel tempio”, ma morì d’infarto durante il processo nel maggio del 1945.

Nato in Virginia nel 1955, Mark Landis viene soprannominato “il falsario filantropo”. Per oltre trent’anni si è preso gioco di esperti e galleristi con opere che spaziano dal Quattrocento all’epoca moderna senza mai venderle, ma offrendole in regalo e questo ha fatto sì che non potesse essere incriminato. Mark Landis ha regalato ai musei statunitensi più di cento quadri contraffatti utilizzando diverse identità, compresa quella di un gesuita, finché nel 2008 alcuni acquerelli insospettirono il curatore dell’Oklahoma City Museum of Art. Il suo successo si basava sull’esecuzione meticolosa della firma che, a suo dire, attenuava l’attenzione degli esperti nei confronti del dipinto.

C’è un elemento comune che sembra stimolare alcuni pittori a intraprendere la carriera di falsario: l’impulso alla rivalsa su quel mondo che, all’inizio della loro carriera, non ne ha preso in considerazione le qualità e li ha respinti. Tuttora molte contraffazioni sono esposte in musei, gallerie e collezioni prestigiose, talvolta con la complicità dei curatori, restii ad ammettere la loro incompetenza e a veder precipitare la quotazione del “capolavoro” di un grande Maestro.

Dopo un’onorata carriera durata trentasei anni, lo ha tradito il tubetto di bianco al titanio utilizzato per dipingere un Max Ernst, un pigmento che l’artista tedesco non avrebbe potuto usare perché inesistente nel 1914, anno di datazione dell’opera. È stato solo nel 2008 che un perito britannico incaricato di analizzare un dipinto attribuito al pittore Heinrich Campendonk ha scoperto la truffa messa a segno da Wolfgang Beltracchi insieme alla moglie Helene.

Wolfgang Beltracchi, Quadrorosso con cavalli, Heinrich Campendonk

Wolfgang Beltracchi, Quadrorosso con cavalli, Heinrich Campendonk

Wolfgang Beltracchi, nome d’arte di Wolfgang Fischer, (chissà perché mai la scelta di uno pseudonimo italiano!) nel 2011 è stato condannato dal tribunale di Colonia a sei anni di carcere per aver immesso nel mercato dell’arte quattordici falsi, di cui ha confessato la paternità, che gli hanno fruttato circa 30 milioni di euro, solo una piccola parte della produzione di dipinti firmati Picasso, Campendonk, Derain, Léger, Van Dongen,… più di trecento opere nello stile di circa cinquanta autori diversi. Il totale dei profitti che Beltracchi avrebbe ricavato dalla vendita dei suoi falsi supererebbe i 100 milioni di euro.

Beltracchi non ha mai copiato un dipinto esistente, ma ha replicato tecnica e stile di ciascun autore dopo averne studiato il linguaggio e con il suo talento ha ingannato critici e collezionisti.

Wolfgang Beltracchi nasce nel 1951 in Germania. È figlio d’arte: suo padre è un restauratore ed esegue riproduzioni di opere di famosi artisti a fini commerciali. Wolfgang impara presto a dipingere e inizia una modesta carriera, ma negli anni ’80 decide di fare un salto di qualità e getta le basi del suo grande raggiro. Viene a conoscenza delle vicende di un mercante d’arte ebreo di Berlino, Alfred Flechtheim (1878 – 1937), che aveva lasciato la Germania dopo l’ascesa al potere di Hitler, la cui collezione di arte moderna era stata confiscata dai nazisti. Nei cataloghi delle mostre allestite da Flechtheim, Beltracchi individua le tele considerate perdute, ma invece di realizzare delle copie crea delle opere originali nello stile dei grandi maestri dell’epoca.

Beltracchi si procura vecchie tele usate da pittori di scarsa importanza, ne scrosta il colore e dipinge utilizzando vecchi pigmenti, infine sottopone i quadri a trattamenti che ne simulino l’invecchiamento e applica sul retro false etichette; racconta di essere venuto in possesso della collezione di un ricco industriale, Werner Jägers, in realtà il nonno della moglie Helene, erede delle opere che Flechtheim gli aveva svenduto prima di abbandonare la Germania e che erano nascoste in una casa di campagna per proteggerle dalle retate naziste. Perché la storia risulti ancora più convincente Beltracchi scatta con una vecchia macchina fotografica e una pellicola scaduta alcune istantanee della moglie Helen nelle vesti della nonna all’interno di una casa le cui pareti sono ricoperte dei suoi falsi, facendo credere che risalgano agli anni precedenti la Seconda Guerra Mondiale.

I quadri vengono acquistati da galleristi e collezionisti di tutto il mondo finché nel 2006, non si scopre che il “Quadro rosso con cavalli”, attribuito a Heinrich Campendonk, contiene un pigmento inesistente all’epoca in cui l’opera sarebbe stata realizzata.

Nel 2010 Beltracchi e la moglie Helene vengono arrestati, processati e condannati rispettivamente a sei e quattro anni, oltre al pagamento di molti milioni di euro di risarcimento.

Helene Beltracchi

Helene Beltracchi

 

Beltracchi è stato liberato nel 2015, dopo aver scontato tre anni di carcere, e ha ripreso a dipingere firmando con il suo nome e a esporre, ma molti suoi falsi si trovano ancora nelle collezioni e nei musei di tutto il mondo perché anche chi sa non denuncia per non mettere a repentaglio cifre elevatissime. La polizia tedesca sostiene di averne individuate sessanta, mentre Beltracchi afferma che siano centinaia.

 

Alfredo Spanò
Ufficio stampa Associazione Culturale Pennabilli Antiquariato

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L’ingannevole intitolazione delle opere d’arte di Rembrandt

ARTICOLI D’ANTIQUARIATO

A molte opere, inclusi alcuni capolavori noti, sono attribuiti titoli che i loro autori non avrebbero neppure immaginato e che non trovano giustificazione se non nella fantasia e nella distorsione mentale di collezionisti e critici d’arte.

 

Rembrandt La sposa ebrea

Rembrandt, La sposa ebrea, 1666 circa, olio su tela (Rijksmuseum, Amsterdam)

 

“La sposa ebrea” è un olio su tela di 121,5 x 166,5 cm realizzato dal pittore Rembrandt Harmenszoon Van Rijn all’incirca nel 1666. Il dipinto, conservato nel Rijksmuseum di Amsterdam, firmato “Rembrandt F.(ecit)” e datato “16(…)”, ritrae un uomo che abbraccia una donna: il loro atteggiamento non ha nulla di lascivo, ma lascia presupporre un’intima consuetudine tra i due. Il soggetto si presta a diverse interpretazioni tanto che i significati attribuitigli sono state molteplici quanto improbabili: agli inizi dell’Ottocento, il proprietario del dipinto, John Smith, vi lesse un augurio di compleanno alla donna, il proprietario successivo identificò la donna come una sposa ebrea che il padre cinge con una collana; da allora in poi il tema biblico prese il sopravvento identificando le due figure come personaggi dell’epopea israelita, in particolare Isacco e Rebecca. Nel XIX secolo “La sposa ebrea” appartenne al banchiere olandese Adriaan van der Hoop, che la donò alla città di Amsterdam assieme ad altri 250 dipinti che, al suo trapasso, riuscirono a malapena a compensare le tasse di successione, ma contribuirono in modo determinante alla raccolta del Rijksmuseum.

Come per tanti capolavori della storia dell’arte universale, titoli posticci e interpretazioni di collezionisti e critici non hanno altro effetto se non quello di sviare l’osservatore dall’impeto emozionale e dalla qualità artistica che prorompono dalla tela. Sicuramente su “La sposa ebrea” influì il fatto che Rembrandt fosse vissuto nel quartiere sefardita di Amsterdam e avesse ritratto illustri esponenti di quella società divenendo uno degli autori preferiti dai collezionisti ebrei.

Chi in realtà abbia ritratto Rembrandt e quale fosse il legame che univa la coppia, quali i sentimenti dei protagonisti non è dato sapere e non si saprà mai, a meno che da qualche archivio o da qualche soffitta polverosa non emergano documenti attendibili sull’opera del Maestro fiammingo.

Sullo sfondo cupo e incerto, da cui non trapela alcun indizio sulla scena dell’incontro, risaltano i due personaggi riccamente vestiti che, seppure non si guardino, dimostrano confidenza e intimità e comunicano con la postura e la gestualità. Lui le abbraccia la spalla e con la mano destra le sfiora il seno in un gesto che appare, più che lussurioso, di affettuoso possesso e che la dama accetta accompagnandolo con la sua mano, mentre l’altra stringe all’altezza del ventre un oggetto indefinibile, forse a indicare un vincolo spirituale e fisico insieme.

Le moderne indagini radiografiche hanno mostrato che in una prima versione del dipinto, la donna sedeva sulle ginocchia dell’uomo come in un disegno in cui Rembrandt aveva raffigurato Isacco e Rebecca ispirandosi all’affresco di Raffaello nelle Logge Vaticane.

Con una rutilante tempesta di colori oro e porpora, Rembrandt sembra voler rappresentare il senso universale dell’amore più completo tra uomo e donna, vero elemento prezioso della vita, di cui abiti e gioielli sono testimonianze simboliche, ma la cui efficacia figurativa è  stupefacente. Il quadro ha un forte impatto estetico ed è capace di suscitare nell’osservatore stimoli emotivi individuali profondi nonostante il titolo fuorviante.

Certo, stupisce come la storia dell’arte si sia divertita ad attribuire ad alcune opere  intitolazioni improbabili mentre si esercitava a metterne in dubbio altre, fino allora considerate veritiere, come nel caso della Gioconda, che Giorgio Vasari indica chiaramente essere Lisa Gherardini, sposa del mercante fiorentino Francesco del Giocondo, identificazione confermata in un documento del 1503: “Come il pittore Apelle, così fa Leonardo da Vinci in tutti i suoi dipinti, ad esempio per la testa di Lisa del Giocondo e…”, ma per la quale, sull’onda di moderne esercitazioni letterarie, sono stati insinuati dubbi discutibili.

 

Alfredo Spanò
Ufficio Stampa Associazione Culturale Pennabilli Antiquariato